Dott.ssa Silvia Raldi - Mediatore penale e mediatore scolastico [email protected] Il presente articolo vuole ricordare l’opera svolta dall’Arcivescovo anglicano Desmond Tutu, recentemente scomparso, che attraverso l’istituzione della “Commissione per la verità e la riconciliazione” seppe guidare la più grande operazione di giustizia ripartiva mai avvenuta nella storia. Ancora oggi, la Commissione, da lui presieduta, rappresenta la più celebre applicazione del concetto di Restorative Justice (o giustizia riparativa) nell’ambito della violazione dei Diritti dell’Uomo e costituisce un esempio a cui fare riferimento per chi si interessa di mediazione penale. La Commissione aveva come scopo non la punizione dei colpevoli, ma la ricostruzione quanto più accurata possibile dei fatti avvenuti negli anni della segregazione razziale tra il 1960 e il 1994, secondo un approccio diverso sia da quello promosso dalle corti penali internazionali, sia da forme generiche di amnistia. Dall'apartheid alla democrazia Il 10 maggio 1994 Nelson Mandela venne eletto Presidente del Sudafrica con voto democratico, in seguito alle prime elezioni libere del Paese. In un mirabile ribaltamento delle sorti, un uomo tenuto prigioniero per ventisette anni, considerato un pericoloso terrorista, ricevette gli onori delle più alte cariche militari e diventò capo di un nazione. Fin da subito Mandela si fece promotore del faticoso processo di transizione e riconciliazione che il paese dovette affrontare. La nazione si trovava in una condizione di fragile equilibrio: il passaggio dal regime dell’apartheid alla democrazia fu repentino, ma la ventata di libertà dovette misurarsi con una realtà dove, la concezione dell’apartheid e la sua sistematica violazione dei diritti umani era ben radicata e non poteva dissolversi da un giorno all’altro. Diventò urgente così trovare il modo di gestire l’eredità di un passato recente ma ingombrante, ben scolpito nella memoria di tutti, per poterla consegnare alle nuove generazioni. Giustizia retributiva o amnistia? La scelta di una terza via Il Paese doveva decidere come giudicare quelle persone che si erano macchiate di crimini durante gli anni della segregazione. Un approccio possibile era quello utilizzato nei processi di Norimberga e di Tokyo, che costituivano le radici storiche e culturali dei Tribunali Penali Internazionali (Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, con sede all’Aja, in Olanda; Tribunale Penale Internazionale per i Crimini in Rwanda, con sede ad Arusha, in Tanzania). L’opzione di seguire il modello di Norimberga, portando in tribunale tutti coloro che avevano commesso gravi violazioni dei diritti umani, per sottoporli al normale iter giudiziario si rivelò impraticabile per il Sudafrica. Se nella Germania della Seconda guerra mondiale era stato possibile imporre unilateralmente la “giustizia del vincitore”, poiché le forze alleate avevano sconfitto l’esercito nazista, in Sudafrica nessuno poteva imporre questo tipo di giustizia, in quanto da nessuna delle due parti era stata riportata una vittoria decisiva: i sudafricani erano costretti a vivere gli uni accanto agli altri, vincitori e vinti nello stesso territorio. In secondo luogo, i militari, che avevano ancora il controllo delle armi e potevano sabotare l’intero processo, non avrebbero mai appoggiato una transizione pacifica se al termine dei negoziati avessero saputo di dover pagare per i crimini a loro imputati. Un’ulteriore motivazione all’impossibilità di istituire un processo sul modello di Norimberga era di carattere economico: un simile apparato processuale avrebbe gravato economicamente su un sistema giudiziario già messo a dura prova da importanti e costosissimi processi a carico dello Stato. Infine in molti dei casi, non sarebbe stato possibile presentare prove a carico degli imputati, poiché gli unici testimoni ancora in vita erano gli autori stessi dei crimini, che si erano prodigati per distruggere le prove e coprire le proprie responsabilità, usando tutti i mezzi che lo Stato metteva loro a disposizione. L’amnistia generale (applicata in Cile su richiesta del generale Augusto Pinochet) è una causa di estinzione del reato e consiste nella rinuncia, da parte dello Stato, a perseguire determinati reati. Si tratta di un provvedimento generale di clemenza che risponde a criteri di opportunità politica e pacificazione sociale. La commissione in Cile per l’accertamento della verità aveva lavorato a porte chiuse, senza indagare sull’operato del regime, con lo scopo di impedire che venissero attribuite delle responsabilità. Era come se il generale Pinochet e il suo seguito in tribunale si fossero seduti contemporaneamente al banco degli imputati, dei giudici e dei pubblici ministeri arrogandosi la possibilità di autoassolversi, senza rendere noto a nessuno ciò che avevano fatto. Una proposta del genere in Sudafrica avrebbe avuto il sapore di una rimozione collettiva e avrebbe provocato di fatto una forma di vittimizzazione secondaria, negando un aspetto fondamentale dell’identità delle vittime. La cancellazione della memoria storica del paese avrebbe nascosto le braci dell’ingiustizia sotto le ceneri dell’oblio, braci che si sarebbero poi riaccese con conseguenze ben peggiori poiché “Quelli che non sanno ricordare il passato, sono condannati a ripeterlo”[1]. Per arrivare a stabilire la verità, si decise così di percorrere una terza via. Il 15 dicembre del 1995 il Capo di Stato Nelson Mandela nominò l’Arcivescovo anglicano Desmond Tutu Presidente della Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana (Truth and Reconciliation Commission). Il lavoro della Commissione si articola attraverso diversi livelli di intervento: la ricostruzione della dimensione storico-collettiva delle violazioni; la ricostruzione della verità, direttamente collegata all'identificazione degli autori delle violazioni; il coinvolgimento degli autori delle violazioni in un percorso di presa di coscienza delle proprie responsabilità individuali, la riparazione delle vittime; il coinvolgimento della comunità in un progetto di riconciliazione. La Commissione era composta da tre gruppi di lavoro: il primo si occupava delle violazioni dei diritti umani ed era presieduto dallo stesso Tutu, il secondo riguardava la riparazione e la riabilitazione delle vittime, e infine il terzo era dedicato alla concessione dell’amnistia, composto da giudici esterni, nominati direttamente dal Presidente Mandela. Si trattava di un’impresa titanica poiché era necessario trovare il consenso non solo di coloro che avevano subito la sopraffazione, ma anche di coloro che avevano appoggiato il regime precedente, ben consci del fatto che “una nazione che sotto il regime repressivo è stata lungamente divisa, non trova immediatamente l’unità quando questo periodo finisce”[2]. Dall’amnistia al perdono possibile La parola amnistia dal greco ά-μνηστία rimanda etimologicamente non solo alla dimenticanza ma anche all’atto del perdono. Il perdono, che attiene alla dimensione del dono e della gratuità, non può essere imposto da nessuna legge. Si può perdonare senza dimenticare? È possibile mantenere l’amnistia e il perdono in una tensione dinamica? Conosciamo un tipo di perdono definito “morale” che è legato al principio di retribuzione, che ristabilisce una reciprocità tra reo e vittima e afferma che si può perdonare solo ciò che si può punire. Ma cosa succede se gli eventi sono irreparabili e antichi, se non c’è intendimento sul torto e diventa impossibile risalire ai responsabili? In questo caso il concetto di perdono morale non può funzionare. La Commissione si trova ad affrontare una situazione in cui tra i protagonisti non è possibile trovare un punto in comune, una tematica condivisa, uno scambio del proprio punto di vista. Per uscire da questa aporia ci viene in soccorso il concetto di giusta distanza di Paul Ricoeur. La giusta distanza consiste nella capacità del soggetto di trovare di volta in volta il punto di equilibrio all’interno della dialettica sé-altro. Questo riconoscimento reciproco non annulla l’alterità, ma la preserva, allontanando il pericolo della fusionalità o della radicalizzazione dell’estraneità. Si passa dall’idea di una distanza che separa, a quella di una distanza che congiunge: in questa dinamica il riconoscimento dell’altro, portatore di istanze diverse dalle proprie, si trasforma in una distanza attraversata. Si può accettare di perdonare, rendendo consapevoli i contendenti che è possibile trovare un accordo che tenga conto del disaccordo, che non esiste un linguaggio comune per definire il torto commesso o subito, che si può tentare di costruire una narrazione sufficientemente ampia che contenga la pluralità delle memorie per poter raggiungere un compromesso sostenibile, ammettendo che non si possono attribuire etichette a priori: vittima o carnefice, perdonante o perdonato. Questo tipo di perdono non elimina il passato, ma obbliga i contendenti a mettere da parte le proprie memorie cristallizzate, ad accettare una narrazione a più voci, in cui ciascuno accetti di spostarsi e di ricollocarsi nella trama della storia. Solo accettando questo tipo di perdono è possibile costruire un’ identità pacificata con il proprio passato. Un paese che vuole guardare al futuro, deve avere un’identità condivisa e la può trovare racchiusa nella propria memoria storica che è allo stesso tempo individuale, cioè legata all’esperienza del singolo, e collettiva, dove l’esperienza dei singoli viene riportata a una dimensione comunitaria. La Commissione era stata istituita per fare verità su quanto accaduto nei decenni precedenti: dopo anni di negazioni, omissioni e bugie, in molti casi, specialmente per le vittime di tortura, la domanda di verità era molto più urgente di quella di giustizia, perché si trattava di una domanda che atteneva alla dimensione del riconoscimento di quanto vissuto, che avviene quando ciò che è già conosciuto, entra ufficialmente nello spazio del dibattito pubblico. [3] Proprio per evitare che la richiesta di amnistia potesse essere fatta per opportunismo o convenienza, la legge prevedeva che, qualora il reato consistesse in una grave violazione dei diritti umani, quali il sequestro di persona, il maltrattamento grave, la tortura e l’omicidio, la domanda dovesse essere presa in esame nel corso di un’udienza pubblica e alla presenza dei mezzi di comunicazione. Una confessione pubblica era il prezzo da pagare per quegli imputati che, considerati fino a quel - momento rispettabili membri della comunità, rivelano pubblicamente di aver compiuto omicidi e torture, sottoponendosi così allo sconcerto, all’umiliazione e alla riprovazione da parte di chi ascoltava. Tuttavia il riconoscimento di responsabilità, che avveniva in modo spontaneo e pubblico di fronte alla Commissione, costituiva un alleggerimento sia della coscienza dei criminali, sia della pena delle vittime. Al pari degli innocenti, anche questi colpevoli furono spesso vittime di un sistema a cui avevano prestato assenso. La Commissione raccolse più di 20.000 deposizioni, segno della necessità delle persone di raccontare la propria storia, di rompere il silenzio, di uscire dall’anonimato. Durante le udienze le emozioni dei testimoni e degli imputati trovavano tempo e spazio di accoglienza e di manifestazione. La vergogna, il dolore, il pentimento, la rabbia, la commozione potevano finalmente uscire alla ribalta, legittimate. Questi momenti catartici non avrebbero potuto trovare spazio durante un processo ordinario. Proprio per la delicatezza e la drammaticità delle testimonianze la Commissione decise di creare intorno ai testimoni un clima di accoglienza, di conferma e di solidarietà e per introdurli in un’ atmosfera rassicurante. Chiunque presiedesse l’udienza rivolgeva loro delle parole di caldo benvenuto. La Commissione aveva previsto una figura che aveva il compito di affiancare il testimone fornendo il conforto della sua presenza, sedergli accanto mentre testimonia, passargli un bicchiere d’acqua, porgere un fazzoletto di carta quando piangeva. Inoltre una particolare attenzione era riservata all’assegnazione dei posti: per non dare l’impressione che il testimone fosse sul banco degli imputati, veniva fatto sedere allo stesso livello di commissari. Grazie a questo clima accogliente e non giudicante, per molte persone raccontare la propria vicenda davanti alla Commissione ebbe un effetto lenitivo e catartico: la verità personale, cioè la verità della memoria ferita, finalmente trovava spazio di ascolto. L’attestazione del riconoscimento di quanto subito racchiudeva in sé una forza risanatrice. Ascolto e accoglienza sono, infatti, essenziali per recuperare un varco verso la normalità. All’applicazione dell’amnistia per il reo, seguivano le misure di riparazione a favore delle vittime di cui doveva farsi carico lo Stato, cioè la collettività, che aveva interesse a raggiungere la pacificazione. Poiché non fu possibile dare a tutte le vittime un’ indennità proporzionata agli abusi subiti, la nazione, riconoscendo i diritti gravemente violati, previde: l’assegnazione di borse di studio o a favore dei figli delle vittime, programmi di recupero per i giovani, spese per interventi medici, abitazioni, una dignitosa sepoltura alle vittime del terrorismo. Ubuntu e Giustizia riparativa Desmond Tutu sosteneva che questa transizione pacifica fosse stata possibile grazie a un tratto fondamentale della visione africana del mondo conosciuta con il nome di ubuntu. Il termine in lingua nguni riguarda l’intima essenza dell’uomo: una persona che ha ubuntu è generosa, accogliente, benevola e compassionevole. Il termine può essere riassumibile nel concetto: “La mia umanità è inestricabilmente collegata con la tua”, e che “una persona è tale attraverso altre persone”. Una persona non si concepisce in termini individualistici ma relazionali: essa è tale solo attraverso gli altri. Per questa ragione l’umiliazione e la violenza patita dagli altri, viene assunta come propria, in una dimensione partecipativa. Il fare giustizia diventa un processo riparativo tanto per chi ha subito il torto quanto per chi lo ha commesso, perché in entrambi i casi gli individui sono stati degradati nella loro umanità. Il crimine non viene considerato come un episodio isolato, ma come un fatto che coinvolge l’intera comunità, perché ne minaccia il patto sociale. Per questa ragione i tribunali africani tradizionali non ricorrevano alla punizione, ma cercavano piuttosto una riconciliazione delle parti accompagnata da un’approvazione da parte della comunità, utilizzando la mediazione. L’etica dell’ubuntu è ben raffigurata dal logo della corte costituzionale sudafricana. Esso rappresenta delle figure di esseri umani bianchi e neri intrecciati tra di loro, dove la sagoma dell’uno nasce grazie allo spazio lasciato dalla sagoma del fratello. Queste figure sono protette dalla chioma dell’albero e nello stesso tempo si prendono cura lui. Nella società tradizionale africana le persone si incontravano sotto un albero per risolvere le dispute. Che cosa ci lascia in eredità l’esperienza sudafricana? L’istituzione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, non ha significato il silenzio sui crimini commessi anzi, ha permesso di risolvere i numerosi conflitti che serpeggiavano nella popolazione e che avevano bisogno di essere portati alla luce, con il loro carico di dolore e vergogna. Questo è stato il motore del cambiamento. Abbiamo visto invece che, laddove ci sia stata la fretta di accantonare il passato, senza l’elaborazione da una riflessione condivisa e di un riconoscimento dei reciproci errori, al solo scopo di raggiungere in modo più rapido un equilibrio pacifico, gli esiti siano stati nefasti. Una pace “coatta”, che nega ogni forma di conflitto interno, anche se sancita da un tribunale internazionale, genera uno stato di tensione permanente, di frustrazione, di rancore ed è destinata a non durare. Basti pensare a quanto avvenuto in Ruanda e nella ex Jugoslavia dove con le guerre civili si è pensato di affrontare il problema eliminando chi lo rappresentava, cioè le persone appartenenti a un’altra etnia. Ogni guerra civile nasce "dalla volontà sistematica di eliminare il conflitto come tensione reciproca, scontro e divergenza e dalla difficoltà di assumere l’altro come limite alle proprie compulsioni e alle proprie proiezioni"[4]. Se in Sudafrica non ci fosse stato questo un processo rielaborativo e riconciliatorio dopo l’apartheid, il senso di ingiustizia e la sete di vendetta avrebbero portato le vittime a diventare aguzzini e a loro volta persecutori, alimentando una spirale di violenza senza fine. La gigantesca operazione di giustizia ripartiva compiuta dalla Commissione guidata da Desmond Tutu, ha permesso al paese di costruire, pur con tante incertezze e difficoltà, le fondamenta di un avvenire nuovo, partendo da una narrazione sufficientemente ampia e condivisa per contenere la pluralità delle memorie. Desmond Tutu, figura autorevole e apprezzata anche da persone di altre confessioni religiose, non smise mai di pregare, credere e sperare in un avvenire migliore per il suo paese ed fu il facilitatore insieme al Presidente Mandela di un cambiamento epocale. Egli svolse il delicato compito di Presidente della Commissione e di mediatore con profonda umiltà, intensa empatia e instancabile apertura al dialogo, e sebbene i problemi e le difficoltà non fossero mancati, con la sua opera contribuì a ricucire gli strappi di una società divisa e ferita dall’odio e dalla violenza. Nel suo libro “Non c’è futuro senza perdono“ l’Arcivescovo rammenta: “E’ fondamentale non dimenticare il fatto che i negoziati, le trattative di pace, il perdono e la riconciliazione avvengono di solito non tra amici ma tra persone che non si apprezzano l’un l’altra. Si rendono anzi necessari proprio perché si sono creati rapporti di inimicizia e di odio. Ma i nemici possono diventare alleati, amici, colleghi, collaboratori. Non si tratta di un’ utopia: se ha potuto accadere da noi, accadrà sicuramente anche in altri luoghi. Forse Dio ha scelto un posto così improbabile come il Sudafrica, proprio per dimostrare al mondo che può accadere dovunque”[5]. Riconoscimento reciproco, riconciliazione delle parti e riparazione del danno fondano le basi di una società sana, dove i conflitti non vengono rimossi, ma gestiti: solo così possono diventare un’opportunità di crescita e di cambiamento. Ringraziamo Desmond Tutu che con l’esperienza sudafricana ci ha dimostrato che l’incontro tra verità e giustizia è davvero possibile. Bibliografia Castiglioni C., Il concetto di riconoscimento in P. Ricoeur. Verso un’etica dell’ospitalità e della gratitudine/riconoscenza, in rivista “Archivio di filosofia”, n. 1-2 LXXXI-2013, pp 37-46 Ceretti A., Il perdono, riparazione e riconciliazione, Ars interpretandi, 9, 2004 Martini C. M.; Zagrebelsky G., La domanda di giustizia, Einaudi, Torino, 2003 Novara D. La grammatica dei conflitti, Sonda, Casale Monferrato, 2011 Tutu D. , Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano, 2001 [1] Sono le parole del filosofo George Santayana che si trovano sopra l’ingresso del museo di Dachau. [2] Frankel M., Out of the shadows of night: The struggle for international human rights, Delacorte Press, New York, 1989 [3] Ceretti, Il perdono, riparazione e riconciliazione, p 4 [4] Novara, La grammatica dei conflitti, p 32 [5] Tutu, Non c’è futuro senza perdono, p 208
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Dott.ssa Silvia Raldi - Mediatore penale e mediatore scolastico [email protected] Per la maggior parte del Novecento in campo scientifico non si è dato peso all’emozione, ritenendola troppo soggettiva e opposta alla ragione, considerata invece la più pregevole capacità dell’uomo. A lungo si è pensato che per comprendere meglio il comportamento umano fosse necessario tralasciare la componente emotiva. Le ricerche degli ultimi decenni hanno invece dimostrato che l’emozione è parte integrante dei processi del ragionamento e delle decisioni: il comportamento e la coscienza di sé sono inevitabilmente legate alle emozioni. Le emozioni sono complessi programmi di azione messi a punto dall’evoluzione e in gran parte automatici e sono il prezioso coronamento nei processi di regolazione della vita. La radice stessa della parola emozione è il verbo latino moveo, «muovere», con l’aggiunta del prefisso «e-» per indicare che in ogni emozione è implicita una tendenza ad agire. Ci sono individui che per effetto di un danno neurologico in alcuni aree cerebrali non riescono a provare una gamma di emozioni e contemporaneamente, non riescono a prendere decisioni razionali. Sebbene la loro capacità di affrontare la logica di un problema sia rimasta intatta, in merito a questioni personali e sociali prendono spesso decisioni razionali quasi sempre svantaggiose per sé e per gli altri: in questi casi il delicato meccanismo del ragionamento non è più influenzato dai segnali provenienti dall’apparato neurale sotteso all’emozione. L’assenza di emozioni nuoce alla razionalità tanto quanto il suo eccesso. E’ probabile che l’emozione appoggi il ragionamento specie quando si tratta di questioni personali e sociali che implicano rischi e conflitti. Questi risultati offrono lo spunto per considerare l’emozione come una manifestazione palpabile della logica della sopravvivenza. Alla luce di questi studi, il dibattito sull’intelligenza emotiva iniziato negli anni novanta, risulta essere ancora fecondo e di estrema attualità. Quando Daniel Goleman scrisse il libro “Intelligenza emotiva”, la società americana viveva una profonda crisi dal punto di vista sociale. Nel 2021, sedici anni dopo, possiamo dire che l’avvertimento sui rischi incombenti di una disintegrazione sociale e della relativa fragilità non sia stato ascoltato e la medesima crisi ha investito anche il nostro paese. L’alfabetizzazione emotiva auspicata da Goleman non si è mai davvero diffusa su larga scala. L’ambito scolastico è lo spazio in cui l’insegnamento dell’alfabetizzazione emozionale troverebbe l’applicazione più felice e fruttuosa ma, nonostante l’interesse tra alcuni educatori e l’abbondanza di testi a riguardo, le proposte sono rare e la maggior parte dei docenti, dei dirigenti e dei genitori ne ignora l’esistenza. Al contrario la crisi si è fatta più diffusa e profonda, complice l’emergenza sanitaria che attanaglia il paese da ormai più di un anno e che ha amplificato una crisi economica, sociale ed educativa già esistente. Sebbene i bambini e gli adolescenti abbiano subito con minore incidenza e gravità l’impatto diretto della pandemia, tuttavia risultano tra i più esposti a subirne gli effetti indiretti: essi sono chiamati ad affrontare le conseguenze psicosociali a lungo termine delle misure di contenimento di un’emergenza tutt’ora in corso. La deprivazione sociale ha avuto e avrà effetti a lungo termine sullo sviluppo cerebrale e comportamentale nella crescita dei bambini e degli adolescenti; a ciò si aggiunge l’allarmante crescita del divario e delle disuguaglianze nell’accesso dei più giovani alle opportunità di apprendimento e di socializzazione. Negli ultimi mesi inoltre, sono sempre più frequenti gli episodi di minori vittime di violenza e abusi domestici, nonché di adolescenti sempre più a contatto con la criminalità. Il Rapporto delle Nazioni Unite sull’impatto del Covid-19 sui bambini e sugli adolescenti, pubblicato nell’aprile 2020, ha sottolineato l’importanza di agire con decisione attraverso un piano di interventi psico-educativi orientati al mantenimento dei rapporti sicuri, alla creazione di spazi per l’espressione delle emozioni rispetto alle esperienze vissute, allo sviluppo ed al rafforzamento di nuove e più efficaci strategie di adattamento. Dall’indagine sull’impatto psicologico del lockdown nei minori è emerso che i bambini e gli adolescenti durante l’isolamento a casa dovuto la pandemia hanno sofferto di disturbi del sonno, attacchi d’ansia, aumento dell’irritabilità. La situazione di isolamento ha determinato una condizione di stress con ripercussioni non solo sulla salute fisica ma anche su quella emozionale-psichica, sia dei genitori che dei figli. Lo studio ha inoltre messo in luce che il livello di gravità dei comportamenti disfunzionali dei bambini e dei ragazzi è statisticamente associato al grado di malessere dei loro genitori. Questo significa che all’aumentare dei sintomi di stress causati dall’emergenza Covid-19 nei genitori (disturbi d’ansia, dell’umore, del sonno, consumo di farmaci ansiolitici), aumentano i disturbi comportamentali e della sfera emotiva nei figli. In questa condizione epocale l’educazione delle nuove generazioni alla competenza emozionale e la valorizzazione dell’intelligenza emotiva risulta ancora più cruciale. Le capacità emozionali e relazionali sono fondamentali per affrontare la lotta della vita nella realtà quotidiana e ancora di più per cercare di uscire dall’emergenza pandemica più forti, sicuri e consapevoli. L’intelligenza emozionale può essere definita come l’insieme delle capacità di motivare se stessi e di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, delle abilità di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza impedisca di pensare e infine delle capacità di essere empatici e di sperare. La vita emotiva può essere gestita con una maggiore o minore abilità e richiede un insieme di competenze specifiche; l’attitudine emozionale può essere considerata una meta abilità in quanto determina quanto riusciamo a servirci delle altre capacità, comprese quelle intellettuali. Molte ricerche dimostrano che le persone competenti sul piano emozionale, cioè quelle che sanno controllare i propri sentimenti, leggere quelle degli altri e di trattarli in modo efficace, si trovano avvantaggiati in tutti i campi della vita. Howard Gardner sostiene che non esista un unico tipo di intelligenza fondamentale per avere successo nella vita, ma che ce ne sia un’ampia gamma. L’intelligenza interpersonale comprende le capacità di distinguere e di rispondere appropriatamente agli stati d’animo, al temperamento, alle motivazioni e ai desideri altrui, mentre l’intelligenza intrapersonale, che è la chiave per accedere alla conoscenza di sé, comprende l’accesso ai propri sentimenti e le capacità di discriminare basarsi su di essi, assumendoli come guida del proprio comportamento. Nessuna intelligenza è più importante di quella interpersonale per questo le intelligenze personali dei bambini dovrebbero essere già addestrate a scuola. L’intelligenza sociale è al tempo stesso distinta dalle capacità scolastiche ed è parte integrante delle doti che consentono alle persone di riuscir bene negli aspetti pratici della vita. Nel definire l’intelligenza emotiva Salovey individua cinque ambiti principali : 1. la conoscenza delle proprie emozioni. Intesa come autoconsapevolezza, cioè la capacità di riconoscere un sentimento nel momento in cui esso si presenta, viene definita la chiave di volta dell’intelligenza emotiva. 2. Il controllo delle emozioni. Le persone capaci di controllo emotivo riescono a riprendersi molto più velocemente dalle sconfitte e dai rovesci della vita. 3. Motivazione di se stessi. Dominare le emozioni è una dote essenziale per concentrare l’attenzione, trovare motivazione e controllo di sé. La capacità di ritardare la gratificazione e di reprimere gli impulsi è alla base di qualsiasi tipo di realizzazione. 4. Riconoscimento delle emozioni altrui. L’empatia, un’altra capacità basata sulla consapevolezza delle proprie emozioni è fondamentale nelle relazioni con gli altri. 5. Gestione delle relazioni. L’arte delle relazioni consiste in larga misura nella capacità di dominare le emozioni altrui. Ciascuno di questi ambiti rappresenta un insieme di abitudini e di risposte passibili di miglioramento. Possedere intelligenza emotiva significa saper gestire se stessi in modo appropriato, avere capacità di autocontrollo nel governo della propria vita attraverso un costruttivo dialogo interiore che ha come obiettivo il miglioramento della relazione con se stessi e il miglioramento della relazione con gli altri. Dalla qualità di queste relazioni deriva la nostra capacità di essere felici e di puntare all’eccellenza. Questo è il motivo per cui l’intelligenza emotiva oggi diventa un cavallo di battaglia anche di molti percorsi di formazione che vengono proposti ad aziende e professionisti, affinché le persone, grazie al raggiungimento di un buon livello di autoconsapevolezza, possano migliorare le relazioni tra di loro e puntare al successo anche in ambito professionale. Anche nel campo della mediazione umanistica l’intelligenza emotiva riveste un ruolo fondamentale: la capacità di gestire le proprie emozioni, il riconoscere quelle degli altri e restare sintonizzati su di esse sono competenze imprescindibili per il mediatore. Secondo il modello umanistico la mediazione è un luogo fisico e metafisico in grado di accogliere il disordine, la sofferenza e la separazione; qui anche le emozioni più forti trovano spazio d’espressione. Conoscere i propri meccanismi emotivi mette al riparo da due derive: dal riposizionamento emotivo che avviene quando si prendono decisioni sull’onda di un’emozione attivata da uno stato d’animo precedente, e dal sequestro emozionale dove si compiono comportamenti sconsiderati, che possono avere anche gravi conseguenze, in seguito a una reazione negativa e distruttiva provocata da un’emozione devastante. L’emozione è parte integrante di ogni relazione. Avere la giusta competenza emotiva è fondamentale per il mediatore. È difficile ammettere di non avere un’adeguata alfabetizzazione emozionale, mentre è più facile credere che dall’altra parte non ci sia capacità di ascolto e comprensione. Sarebbe invece opportuno domandarsi quanto queste informazioni di carattere emozionale possano mettere a repentaglio la qualità stessa di una relazione. Avere una buona competenza emozionale consente di gestire meglio le sensazioni che viviamo, permette di raggiungere un buon livello di benessere attraverso un miglior autocontrollo nelle comunicazione con gli altri. Se riusciamo a riconoscere sul piano emozionale i momenti di difficoltà, possiamo gestirli e fare in modo che non trapelino e non prendano il controllo su di noi, anche nel setting di mediazione, dove le emozioni delle due parti possono manifestarsi con tutta la loro forza. Gli studi dimostrano che l’intelligenza emotiva può essere accresciuta, che la pratica delle emozioni aiuta ad acquisire una maggior autoconsapevolezza. Le emozioni, se ben riconosciute e governate, si possono trasformare da elemento di debolezza e fragilità ad un punto di forza per la nostra vita personale e professionale. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Bibliografia:
Edel Margherita Beckman – criminologa clinica [email protected] Il confine che separa la vita reale da quella virtuale non sempre è netto: basti pensare all'uso della tecnologia e dei dispositivi elettronici che ad oggi fanno parte non solo della quotidianità del singolo ma sono diventati sempre più un terreno fertile per la costruzione di nuove relazioni, amorose e non e costituiscono il principale canale comunicativo nonché il più veloce: nell’ultimo decennio infatti si è infatti assistito ad un incremento sia dell’uso di Internet sia dei Social Network (Facebook, Instagram, WhatsApp etc), incremento che è stato percepito soprattutto con l’avvento della pandemia iniziata nel 2020. Questo approccio alla tecnologia ha portato anche alla normalizzazione della condivisione di dettagli sempre più intimi della propria vita, senza considerare il contrappeso della condivisione con un bacino di utenti non sempre conosciuto. È quindi chiaro che se ciò che accade on-line ha conseguenze anche off-line per gli individui, non si sta più parlando di due mondi distinti e indipendenti, ma di un unico ambiente. Tra i diversi reati che possono essere commessi on-line si annovera anche la Non-Consensual Pornography (o Pornografia Non-Consensuale), una delle peggiori forme di sfruttamento sessuale e violazione della privacy (nonché dell’intimità) perpetrata in rete, spesso erroneamente definito Revenge Porn (Porno-vendetta), dove invece la finalità vendicativa può essere solo una delle ragioni ma non l’unica. Il termine Non-Consensual Pornography, che permette includere tutte le casistiche, viene utilizzato da una parte della comunità scientifica per indicare l’illecita condivisione di immagini o video sessualmente espliciti, destinati a rimanere privati, senza il consenso della persona rappresentata, al fine di arrecare un danno alla vittima. Il materiale può essere stato realizzato con o senza il consenso della vittima (in questa seconda ipotesi si pensi alle registrazioni di una violenza sessuale o all’accesso abusivo a sistemi informatici) ma a prescindere dalla volontà o meno del consenso alla realizzazione non c’è mai (e non può essere data per scontata) la volontà alla condivisione. Quando si diventa vittima di Non-Consensual Pornography, oltre alla condivisione virale del materiale si diviene tendenzialmente vittime anche di altri reati, quali gli attacchi d’odio in rete e i molti casi di Stalking: difatti, in oltre la metà dei casi insieme al materiale vengono anche condivisi le informazioni private della vittima, quali i dati anagrafici e i link ai Social Network. Nel 2019 è stata introdotta la Legge n. 69/2019, emanata il 19 luglio e denominata “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”, che mira a proteggere le vittime di violenza domestica e di genere, perpetrata anche attraverso dispositivi elettronici. Tra le novità si evidenzia l’introduzione dell'Articolo 612-ter del Codice Penale, che punisce la condotta appena analizzata, denominato “Distribuzione illecita di immagini o video sessualmente espliciti”. Ai sensi dell’Articolo 612-ter è punita la condivisione di immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000; i commi 3 e 4 prevedono due ipotesi aggravanti. (1) Nonostante la crescita esponenziale che il fenomeno sta avendo (2), sia nel panorama italiano che in quello europeo si parla ancora troppo poco non solo del reato ma soprattutto delle conseguenze. Le ragioni possono essere molteplici, tra le quali il riconoscimento della fattispecie delittuosa solo con la legge 69/2019 e il trovarsi in una società nel quale ci sono ancora oggi dei modelli culturali profondamente distorti che portano a reazioni sociali quali la colpevolizzazione della vittima anziché il suo riconoscimento e conseguente tutela. Il Victim Blaming può essere definito come la colpevolizzazione della vittima appunto, che porta ad una seconda forma di vittimizzazione: prima si diventa vittima del carnefice, poi della società. Spesso poi, se si tratta di donna, si tende ad attribuire una parte della colpa dell’accaduto alla stessa. Questo tipo di atteggiamento emerge ad esempio dai commenti che talvolta accompagnano gli articoli di giornale che raccontano un episodio di violenza (sessuale, piuttosto che domestica) come a voler sottendere il “se l’è cercata”. E la stessa tipologia di atteggiamento giudicante si può certamente riscontrare nei reati on-line, quali la Non- Consensual Pornography in tutte le sue sfumature. In questa seconda ipotesi si ritiene che buona parte delle ragioni possano essere spiegata con la cd. distanza sociale che la rete crea: difatti, trattandosi di reati perpetrati in rete, la distanza tra la vittima e il carnefice fa si che la prima non venga realmente percepita in quanto tale. Qual è allora il ruolo della mediazione penale al perpetrarsi di queste reati e del mediatore, non solo a livello giuridico ma anche sociale? È doverosa innanzitutto la considerazione che da molti anni ormai è in corso un accesso dibattito sui problemi di cui soffre il sistema sanzionatorio italiano e di come le risposte da parte dello Stato di fronte alla commissione dei reati siano spesso carenti ed insufficienti. Uno dei problemi maggiori è la scarsa rilevanza che la vittima assume all’interno del processo penale: da un lato infatti, la burocrazia e il non coordinamento portano ad un trascinamento di situazioni e realtà che andrebbero gestiti in tempi molto più brevi; dall’altro lato, la vittima spesso rischia di subire una seconda vittimizzazione da parte della stessa autorità che dovrebbe tutelarla, per mancanza di conoscenza del fenomeno come nel caso in esame e coordinazione interna quando è richiesto un approccio multidisciplinare (e.g. forze dell’ordine, avvocati, Pubblico Ministero, psicologo etc. ). La Giustizia Riparativa si porrebbe dunque quale strumento di riconciliazione tra autori di reato, vittime e società, in cui le parti sono coinvolte in prima persona e l’obiettivo del mediatore sarà quello di trasformare la relazione “tra antagonisti” in relazione “tra persone che si assumano responsabilità”. Da un punto di vista nazionale in Italia vige però il principio della obbligatorietà dell'azione penale, pertanto nessuna politica di sviluppo delle pratiche di mediazione può rispondere all'esigenza primaria di riduzione e snellimento delle procedure processuali: tuttavia ha in sé la possibilità di ridisegnare i confini dell'intervento penale (3), superando le dinamiche processuali nelle quali c’è una parte vincente e una perdente: qui ogni parte ha la possibilità di “vincere” qualcosa. Il percorso di mediazione difatti, coinvolgendo il reo la vittima e la comunità, tende a dare una risposta al reato attraverso la ricerca di possibili soluzioni agli effetti negativi e devastanti generati dall’azione criminosa e al concreto impegno di porvi rimedio: essa si presenta come una possibilità di scelta. Suo obiettivo non è la punizione del reo bensì la rimozione delle conseguenze del reato attraverso l’attività riparatrice da parte dello stesso: vittima e reo con l’aiuto dei mediatori diventano veri protagonisti del processo (4) . Nella mediazione penale, dunque, la vittima ha la possibilità di esprimere il proprio dolore, e far emergere i propri bisogni e mentre il reo avrà la possibilità di adoperarsi in favore della vittima rimediando al suo crimine. La paura piuttosto che il disagio o il rancore verso chi ha operato ai suoi danni se non sarà né potrà essere gestita dalle istituzioni, al contrario, avrà la possibilità di essere gestita attraverso il canale comunicativo offerto dalla mediazione. In conclusione, quando un reato viene perpetrato in rete, lo strumento della mediazione penale potrebbe quindi svolgere un ruolo fondamentale, perseguendo un obiettivo più grande di quello proprio della Giustizia Riparativa, ovverosia il dimostrare che il virtuale va trattato come il reale e che quello che accade in rete si traduce, all’atto pratico, in due esseri umani difronte al mediatore. Attraverso un percorso di mediazione inoltre si fa si che le due parti non rimangano dei semplici confliggenti lasciando l’etichetta di vittima o carnefice: l’obiettivo sarà allora quello di riuscire a riporre la maschera e vedere nell’altro un essere umano, con uno sguardo che, a causa delle nuove tecnologie, diventa sempre più difficile avere. ------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------ Note: (1) “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, dopo averli realizzati o sottratti, invia, consegna, cede, pubblica o diffonde immagini o video a contenuto sessualmente esplicito, destinati a rimanere privati, senza il consenso delle persone rappresentate, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da euro 5.000 a euro 15.000. La stessa pena si applica a chi, avendo ricevuto o comunque acquisito le immagini o i video di cui al primo comma, li invia, consegna, cede, pubblica o diffonde senza il consenso delle persone rappresentate al fine di recare loro nocumento. La pena è aumentata se i fatti sono commessi dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se i fatti sono commessi attraverso strumenti informatici o telematici. La pena è aumentata da un terzo alla metà se i fatti sono commessi in danno di persona in condizione di inferiorità fisica o psichica o in danno di una donna in stato di gravidanza. Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. Si procede tuttavia d'ufficio nei casi di cui al quarto comma, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio”. (2) https://www.permessonegato.it/doc/PermessoNegato_StateofRevenge_202011.pdf (3) Raccomandazione del Comitato dei Ministri agli Stati Membri sulla Giustizia Riparativa in materia Penale e La Raccomandazione n° (99) 19 sulla mediazione in materia Penale (4) Per approfondimenti si consiglia la lettura di CERETTI, NATALI, Cosmologie violente, Percorsi di vite criminali, Raffaello Cortina Editore, 2009 ----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------- Bibliografia e Sitografia
Riflessioni sul percorso formativo 2020/2021L’emergenza sanitaria, provocata dalla pandemia Covid-19, ha costretto il mondo della formazione a muoversi verso l’erogazione di soli corsi online, in tutte gli ambiti e in tutte le discipline. Anche Aimepe Lombardia ha dovuto adeguarsi, proteggendo i corsisti e i loro familiari. Per questo, ci si è subito interrogati profondamente sulla fattibilità online di un corso professionalizzante, con tante ore di pratica e con una componente relazionale quasi decisiva, ai fini dell’apprendimento. Del resto, per noi, è sempre stato importante preservare i rapporti alla luce del fatto che il “fare formazione”, non avesse nulla a che vedere con la mera erogazione di contenuti, ma con qualcosa che potesse accadere incontro dopo incontro… Come poter soddisfare, allora, i tre livelli di una buona formazione? Il sapere? Il saper fare? Il saper essere? In particolare, in questo contesto, il sapere è inteso come capacità di individuare quelle situazioni relazionali difficili, i conflitti aperti o latenti che possono essere generativi di un nuovo rapporto e come accettazione della diversità, dei valori delle realtà degli altri, senza perdere i propri punti di riferimento. Il saper fare, invece, è legato alla capacità di far fronte alle situazioni di conflitto, dalla semplice tensione alla violenza morale, verbale e/o fisica, creando un tempo e un luogo per l’accoglienza e l’ascolto. Il saper essere, infine, è relativo alla capacità di integrare quanto appreso durante il Master nella vita quotidiana, personale e professionale, assumendo un atteggiamento adeguato, da “artigiano di pace” in tutte le circostanze, anche quelle più complesse, in modo da diffondere, con piccole azioni, l’esprit de la médiation. Ecco che, per soddisfare questi tre livelli sopraelencati, il team è pervenuto alla conclusione che fosse necessario preservare la parte esperienziale del Master. E’ così è stato! Il Corso di alta formazione in Mediazione dei conflitti e Mediazione penale 2020 non ha abdicato alla parte pratica , indipendentemente dal fatto che si sia dovuto svolgere prevalentemente on-line. E’ opportuno sottolineare, però, che la formazione on-line è avvenuta sempre in modalità sincronica, ossia le allieve si sono collegate insieme, entrando in una stanza virtuale nello stesso momento, come se si apprestassero, ad ogni incontro formativo, ad aprire la porta della sede operativa. Quindi, nonostante l’emergenza Covid-19 abbia forzatamente isolato le persone, AI.Me.Pe Lombardia è riuscita ugualmente a costruire una micro-comunità, servendosi dell’e-learning come strumento di interazione a servizio dell’apprendimento. Indubbiamente si è trattato di un cammino particolare, nuovo, non esente da difficoltà, ma che ha reso ciascuno di noi più determinato e creativo nel favorire l’incontro. E noi di incontri ce ne intendiamo…! Per questo ogni lezione è stata arricchita da esercizi in modalità blended (combinazione tra sessioni in classe e approfondimenti digitali), da dibattiti, da riflessioni, da lavori in coppia e in gruppo (su esercizi di ascolto, di accoglienza delle emozioni, di comunicazione non verbale, di ascolto empatico), da storyboard e da giochi di ruolo che mettono in scena alcuni conflitti vissuti dai partecipanti stessi. Quest’ultimi hanno permesso ai corsisti di cominciare a praticare la mediazione. Le simulazioni, infatti, offrono ai partecipanti la possibilità di sperimentare, in prima persona, i meccanismi del conflitto e di acquisire l’esperienza sempre più approfondita della relazione di opposizione. L’incontro con le emozioni e la sofferenza non è teorico, ma vissuto, in quanto c’è sempre un effetto specchio rispetto alle proprie esperienze. In questo modo, i partecipanti riescono a comprendere appieno il meccanismo del processo di trasformazione, proprio della mediazione. I partecipanti possono sperimentare, ogni volta, un ruolo diverso del setting di mediazione penale: mediante (vittima, colpevole) e mediatore Durante la formazione, le simulazioni sono state portate avanti con estrema attenzione e serietà, chiedendo alle allieve di raccogliersi in un luogo isolato della propria abitazione e accertandosi sempre che vi fosse un accompagnamento appropriato in uscita, con le dovute restituzioni. Per quanto riguarda gli stages in presenza, invece, si sono rivelati delle occasioni calendarizzate per portare avanti delle attività motorie altrimenti impraticabili a distanza e dei momenti per saldare dei legami già stretti on-line. Pertanto essendo riusciti ugualmente a perseguire gli obiettivi prefissati in programma, abbiamo deciso di convalidare l’esperienza formativa, proponendo anche per quest’anno la stessa formula dell’edizione 2020: on-line in maniera sincronica e 3 laboratori, in presenza, nel pieno rispetto delle norme anti-Covid. Le lezioni al pc, quindi, continueranno a prevedere esercitazioni e simulazioni di casi reali in grado di fornire ai partecipanti competenze pratiche di mediazione penale che vanno ben oltre la semplice conoscenza della materia. I laboratori in presenza, invece, saranno serventi per conoscere più da vicino il gruppo e per assimilare e approfondire quanto già appreso. Gli stages, in presenza, verteranno su:
Noi ci auguriamo vivamente che l’edizione 2021 possa essere emozionante come quella appena trascorsa, nonostante le difficoltà del momento storico. Del resto è risaputo che - rimanendo dentro la vita e nel mondo - le crisi possono rivelarsi delle opportunità di crescita. Per noi è stato così, in quanto abbiamo lavorato moltissimo per la buona riuscita del corso. Pensiamo che non si tornerà indietro. Ogni nostra esperienza sarà comunque modificata - seppur in minima parte - nel futuro da quanto vissuto nell’ultimo anno, tra queste anche l'esperienza formativa di AI.Me.Pe Lombardia. Buon vento... Nell’articolo precedente ci siamo occupati di presentare la figura del mediatore penale. Oltre all’area giuridica esiste però un ambito in cui le competenze del mediatore penale possono davvero fare la differenza: le scuole. E’ tristemente noto come, negli ultimi anni, il problema del bullismo (e del cyberbullismo) sia diventata una delle emergenze che devono affrontare numerosi istituti. Secondo i dati, il bullismo inizia a manifestarsi come fenomeno strutturato già nella scuola secondaria di primo grado (quelle che chiamavamo “scuole medie”) per poi diventare preponderante nella secondaria di secondo grado (le scuole superiori). Dopo un periodo discretamente positivo rispetto alla crescita, educazione e futuro dei giovani italiani, ci troviamo oggi di fronte alla necessità di sanzionare un grande numero di comportamenti commessi da minori ai danni di altre persone. In alcuni casi gli atti di bullismo sono così gravi da essere denunciati e diventare di competenza del Tribunale per i Minori. Ma in moltissimi altri casi gli atti di bullismo non vengono denunciati. Teatro di numerosi di questi agiti può essere un luogo pubblico (ad esempio la fermata di un autobus, oppure un parco), un luogo privato (come nel caso della banda di giovani ragazzi che entrava nella casa di un anziano disabile per aggredirlo e schernirlo, registrando e mettendo on line il tutto), ma può essere anche la scuola. La scuola è, di fatto, un luogo di apprendimento, ma anche di educazione. Di fronte all’ emergere del fenomeno bullismo e dell’aggravarsi dei comportamenti (furti, vessazioni, percosse, insulti, atti di vandalismo, solo per citarne alcuni) la scuola si è trovata impreparata e, in mancanza di altri strumenti, ha continuato ad educare i già educati ed intervenire col classico sistema punitivo per tutti gli altri. La nota sul registro, la convocazione di fronte al dirigente scolastico del ragazzo e dei genitori, la minaccia o l’attuazione della sospensione, la minaccia del rischio di rendere più difficile la carriera scolastica, sono gli strumenti maggiormente utilizzati nel tentativo di bloccare il bullo. Il fallimento di queste soluzioni (che non fermano il bullo e lasciano impotente ed insoddisfatta la vittima) ha portato molti istituti a chiedere aiuto, finanziando corsi di formazione sul tema per i propri docenti e attività educative di classe, ma anche in questo caso non sono stati rilevati i risultati sperati. Con una Sentenza del Tribunale di Milano del 2013 è stato affermato che l’obbligo di vigilare sugli alunni da parte della scuola viene violato non solo nel caso in cui il docente non sia in grado di spiegare un intervento correttivo e repressivo. Tale obbligo, secondo il Giudice di merito milanese, viene altresì violato anche quando la Scuola non abbia adottato, in via preventiva, tutte le misure disciplinari o organizzative idonee ad evitare il sorgere di situazioni pericolose. Si è pensato, così, negli ultimi anni, di introdurre e sensibilizzare sul tema della mediazione scolastica, come soluzione ai fenomeni di bullismo, tesa alla promozione di un clima socio-affettivo scolastico. Il mediatore può intervenire, infatti, efficacemente sia a seguito di conflitti già aperti, sia in un’ottica di prevenzione. Dove è stato fatto, è stato per intuizione personale di formatori o docenti, oppure grazie a letture specifiche. E laddove è stata attuata, si sono registrati i risultati migliori. Saper gestire, infatti, correttamente le relazioni con gli altri significa anche avere gli strumenti per affrontare correttamente il conflitto, che non è un evento eccezionale ed accidentale, ma un elemento costitutivo della relazione stessa, dotato di una forte componente emotiva. Ecco che, un mediatore penale bravo ed esperto (oltre agli ambiti predefiniti d’intervento) - utilizzando quelle che sono le competenze professionali e tecniche - potrebbe essere anche chiamato a mettere a disposizione il suo know-how in progetti scolastici, lavorando in équipe con mediatori scolastici, agevolando il dialogo e ricostruendo uno spazio relazionale positivo, dove il bullo possa ragionare sulla sua condotta e la vittima non rimanga imprigionata nel suo ruolo. Si consideri, poi, che nel kit di lavoro del mediatore penale vi è anche l’empatia. Nel caso in esame, accrescere o far sviluppare empatia negli studenti significa far in modo che questi possano rendersi conto, per esempio, della sofferenza che comporta una condizione di esclusione o di attacco da parte dei compagni. I ragazzi possono essere aiutati, infatti, attraverso attività di role playing (caratterizzanti il percorso di formazione in mediazione penale) a entrare nel vissuto e nella condizione difficile della vittima. Ai bambini danesi si insegna da molto tempo l’empatia. Durante la “Klaassens tid”, gli alunni sperimentano questa “disciplina”, entrata nel loro curriculum nazionale nel 1990, mangiando un pezzo di torta preparata con le loro piccole manine e trattando ed ascoltando vicendevolmente i loro problemi. Da soli, infatti, non riuscirebbero ad affrontare e gestire con chiarezza e lucidità le difficoltà. Si è constato che i bambini non hanno alcun timore di essere presi in giro, al contrario in loro aumenta il coraggio per il solo fatto di essere ascoltati, imparando quanto sia importante il rispetto reciproco. Anche in Italia, però, sono in aumento le realtà aperte alla mediazione scolastica e che stanno portando avanti progetti importanti di mediazione anti-bullismo, che coinvolgono non solamente l’Istituto, ma anche le famiglie e la comunità tutta, anche se la nostra vecchia cultura (soprattutto per quanto riguarda le generazioni più datate di insegnanti, ormai prossime al pensionamento) è ancora permeata dall’idea che la sanzione e la punizione siano gli strumenti elettivi di correzione di comportamenti devianti. Gli interventi riparatori, propri dello strumento di mediazione penale, in tali contesti, oltre ad offrire una solida conoscenza di come gestire in maniera funzionale il bullismo o altre liti (facilitando la comprensione dell’altro diverso da sé), permetterebbero, allo stesso tempo, di verificare la creazione di gruppi di “giovani mediatori” fra gli studenti, che potrebbero diventare dei veri punti di riferimento per tutti: direttore e/o preside, insegnanti, genitori e alunni stessi. In questo modo ne gioverebbe l’Istituto scolastico nel suo complesso, migliorando la comunicazione interna ed esterna di tutti i membri del sistema. Alla luce delle considerazioni fatte si comprende, dunque, come sia importante che ci si attivi compiendo interventi mirati sugli alunni, creando percorsi di educazione alla legalità e di mediazione scolastica, incontri dove anche il mediatore penale possa aiutare ad attivare l’ascolto attivo e l’empatia, volti alla responsabilizzazione e che consentano a tutti gli studenti di avere buone relazioni per il presente e per il futuro di buoni uomini e professionisti del domani. Se sei interessato alla formazione come mediatore penale e vuoi conoscere gli ambiti in cui può lavorare, ti informiamo che sono aperte le iscrizioni al I Master di Alta formazione in Mediazione dei Conflitti e Mediazione Penale, organizzato da AIMEPE Lombardia. Se hai gradito questo articolo, aiutaci a condividerlo! DISCLAIMER
Questo blog non rappresenta una testata giornalistica in quanto viene aggiornato senza alcuna periodicità . Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale ai sensi della legge n° 62 del 7.03.2001. L'autore non è responsabile per quanto pubblicato dai lettori nei commenti. Ad ogni post verranno cancellati i commenti ritenuti offensivi o lesivi dell’immagine o dell’onorabilità di terzi, di genere spam, razzisti, incitativi alla violenza o che contengano dati personali non conformi al rispetto delle norme sulla Privacy. Alcuni testi o immagini inseriti in questo blog sono tratte da internet e, pertanto, considerate di pubblico dominio; qualora la loro pubblicazione violasse eventuali diritti d'autore, vogliate comunicarlo via email. Saranno immediatamente rimossi. L'autore del blog non è responsabile dei siti collegati tramite link né del loro contenuto che può essere soggetto a variazioni nel tempo. La Giuditta di Artemisia Gentileschi non è la fanciulla candida rappresentata dagli altri artisti, non figura come presenza simbolica della virtù che trionfa sul male. La Giuditta della Gentileschi è una donna energica che adopera tutta la sua forza fisica per uccidere Oloferne, prendendone contemporaneamente le distanze dal corpo per evitare di farsi imbrattare dal sangue nemico. Etimologicamente il termine vittima deriverebbe dalla convergenza di due verbi latini: vincīre e vincere. Il primo che significa legare, rimandando agli animali che venivano offerti in sacrificio alla divinità a scopo propiziatorio. Il secondo verbo, invece, designa l’azione del vincitore che si impone con violenza e dominio su altri soggetti, destinati a soccombere. Una terza vecchia ipotesi - che oggi trova l’adesione del Corssen - riporta alla radice di vigere, cioè essere forte, essere robusto, perché la vittima era scelta fra i capi migliori. Quest’ultima interpretazione etimologica offrirebbe una maggior aderenza alla realtà, avvallando quanto riportato dagli studi vittimologici, in base ai quali vi è un legame tra vittima e autore di reato, ove luce e ombra concorrono alla resa drammatica, come nel dipinto sopra della pittrice. Nello specifico, per taluni reati è difficile individuare con precisione i giochi di dominio, individuare chi sia la parte debole e quella forte, indipendentemente dall’evento. Tali teorie vittimologiche, acquisendo nel tempo una propria autonomia scientifica, hanno permesso di guardare in maniera differente il soggetto passivo del reato. In tal senso la vittima, oggi, non è più semplicemente titolare di diritti, ma è anche e soprattutto titolare di bisogni, originati dalla nuova condizione. La vittimologia individua come bisogno primario delle vittime quello di essere ascoltate. Ascoltate sulla relazione con il proprio carnefice per dare un senso a quello che è avvenuto; ascoltate su quello che gli studiosi in materia definiscono come “la perdita del prima”, quel prima che il reato ha disperso; ascoltate per rielaborare la realtà che le circonda ed in cui non riescono più a ritrovare se stesse. Tale bisogno, infatti, è strettamente connesso alla ridefinizione del sé violato e alla propria identità ferita. La vittima chiede di sentirsi nuovamente inclusa, di partecipare, in maniera rinnovata, al processo di integrazione sociale senza paura. E’ proprio sull’ascolto che si incentra tutta l’attività dei Centri di Victim Support, o centri a sostegno delle vittime. Queste strutture, presenti ormai da tempo in molte realtà europee e nei Paesi anglosassoni, sono richiamate in diversi atti internazionali che ne richiedono espressamente l’istituzione. Tali centri offrono tutela, consulenza e trattamento alle vittime, indipendentemente dal tipo di reato, prevedendo servizi differenziati. I centri si avvalgono del lavoro di professionisti esperti e competenti, adeguatamente formati ed aggiornati per rispondere alle esigenze di un’utenza molto delicata. Quest’ultimi lavorano, spesso, in équipe, collaborando con organismi pubblici ed altre agenzie presenti sul territorio (quali la Procura, le forze dell’ordine, i servizi sociali, le associazioni di categoria, altre associazioni che operano a tutela delle vittime del crimine). L’obiettivo è quello di aiutare la vittima a superare il trauma subito, acquisire sicurezza ed avere protezione, informarla circa i suoi diritti, oltre che fornirle, se necessario, beni di prima necessità. Lo strumento utilizzato è quello dell’ascolto attivo, empatico dei fatti narrati dalla vittima. Pertanto l’operatore del Centro deve essere competente nell’ascoltare attentamente la persona che ha davanti. Ecco perché chi decide di formarsi alla mediazione penale può scegliere di impiegarsi alternativamente nei centri di sostegno alle vittime. AIMePe Lombardia ha previsto, all’interno del percorso di formazione alla mediazione penale 2020, uno stage interamente dedicato alla creazione e allo sviluppo di un Centro di Victim Support. In queste strutture la vittima viene sempre informata della possibilità di iniziare un percorso di mediazione con l'autore di reato, insieme a mediatori professionisti esperti. E’ importante, però, che la scelta rimanga libera e consapevole e non vi sia imposizione alcuna, perché altrimenti potrebbe innescarsi un processo di vittimizzazione secondaria. All’estero i centri di sostegno alle vittime operano di concerto con i centri di mediazione penale presenti sul territorio. Questa sinergia agevola certamente i mediatori penali nel reperimento del contatto della vittima, in quanto possono rifarsi ai database dei centri di victim support. E’ doveroso, comunque, sottolineare la differenza tra le due realtà e la preziosità dell’esistenza di una per l’altra e viceversa. Se infatti i centri di sostegno alle vittime si concentrano sul passato ed il presente della vittima, i centri di mediazione penale guidano quest’ultima verso una visione nuova ed importante: una visione futuro- centrica . Se sei interessato a diventare Mediatore Penale, puoi iscriverti al I Corso di Alta Formazione in mediazione dei conflitti e Mediazione Penale organizzato da AIMePe Lombardia nella sede di Milano. Puoi iniziare ad avere alcune informazioni cliccando QUI oppure scrivendoci ad [email protected]. AUTORE Dott.ssa Anastasia Montefusco, mediatore dei conflitti, laureata in Giurisprudenza alla Bocconi (MI), master conseguito presso la Scuola di Specializzazione per le Professioni Legali “E. Redenti”, formazione in Negoziazione presso la Corte Arbitrale Europea. Formatore AIMePe. Se hai gradito questo articolo, aiutaci a condividerlo! DISCLAIMER
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Ma per qualsiasi altro aspetto, psicologico, sociale, di riabilitazione, di rimarginamento delle ferite, comprensione dell’accaduto, costruzione di senso e significato, sia la vittima che il reo sono lasciati completamente da soli. Esiste un “vuoto” proprio laddove la Giustizia limita il proprio intervento basandosi su di un sistema “Danno-Punizione”. Di recente sono state diffuse indicazioni di comportamento e di buona pratica per evitare il fenomeno della vittimizzazione secondaria. E’ in tale direzione che si inscrive la mediazione penale: sia la pressione politica esercitata dai movimenti a favore delle vittime, così come la nascita di un pensiero umanistico a favore delle vittime, diventano terreno favorevole per la nascita del modello di Giustizia Riparativa. Diversamente dalla Scuola Classica e dalla Scuola Positiva, la Restorative Justice affronta il rapporto fra reo e vittima partendo dal pensiero che “Il crimine è una violazione delle persone e delle relazioni interpersonali; le violazioni creano obblighi; l’obbligo principale è quello di ‘rimediare ai torti commessi”. La Giustizia Ripartiva, coinvolgendo il reo, la vittima e la comunità, tende a dare una risposta al reato attraverso la ricerca di possibili soluzioni agli effetti negativi e devastanti generati dall’azione criminosa; essa si presenta come una possibilità di scelta alla risposta della trasgressione. Suo obiettivo non è la punizione del reo bensì la rimozione delle conseguenze del reato attraverso l’attività riparatrice da parte dello stesso: vittima e reo con l’aiuto del mediatore (figura terza e imparziale) diventano protagonisti del processo. [1] La vittimizzazione secondaria è particolarmente frequente fra le donne che hanno subito maltrattamento da parte del partner. Solo di recente sono state diffuse indicazioni di comportamento e di buona pratica per evitare la vittimizzazione secondaria di queste persone. CORSO DI ALTA FORMAZIONE IN MEDIAZIONE DEI CONFLITTI E MEDIAZIONE PENALE Se sei interessato alla formazione come mediatore penale e vuoi conoscere gli ambiti in cui può lavorare, ti informiamo che sono aperte le iscrizioni al I Master di Alta formazione in Mediazione dei Conflitti e Mediazione Penale organizzato da AIMEPE Lombardia, che si svolgerà a Milano a partire da marzo 2020. Puoi trovare le informazioni del corso QUI, oppure scrivendo ad [email protected] Se l'articolo è stato di tuo gradimento, condividilo! Dott.ssa Monica Bonsangue, psicologa, psicoterapeuta, psicotraumatologa, esperta in dinamiche di violenza, formatrice internazionale. DISCLAIMER
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AutoreDott.ssa Monica Bonsangue, psicologa, psicoterapeuta e psicotraumatologa, esperta in dinamiche di violenza. Formatore internazionale. Autrice del libro "La violenza psicologica nella coppia. Cosa c'è prima di un femminicidio". Archivi
Gennaio 2022
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