Dott.ssa Silvia Raldi - Mediatore penale e mediatore scolastico [email protected] Il presente articolo vuole ricordare l’opera svolta dall’Arcivescovo anglicano Desmond Tutu, recentemente scomparso, che attraverso l’istituzione della “Commissione per la verità e la riconciliazione” seppe guidare la più grande operazione di giustizia ripartiva mai avvenuta nella storia. Ancora oggi, la Commissione, da lui presieduta, rappresenta la più celebre applicazione del concetto di Restorative Justice (o giustizia riparativa) nell’ambito della violazione dei Diritti dell’Uomo e costituisce un esempio a cui fare riferimento per chi si interessa di mediazione penale. La Commissione aveva come scopo non la punizione dei colpevoli, ma la ricostruzione quanto più accurata possibile dei fatti avvenuti negli anni della segregazione razziale tra il 1960 e il 1994, secondo un approccio diverso sia da quello promosso dalle corti penali internazionali, sia da forme generiche di amnistia. Dall'apartheid alla democrazia Il 10 maggio 1994 Nelson Mandela venne eletto Presidente del Sudafrica con voto democratico, in seguito alle prime elezioni libere del Paese. In un mirabile ribaltamento delle sorti, un uomo tenuto prigioniero per ventisette anni, considerato un pericoloso terrorista, ricevette gli onori delle più alte cariche militari e diventò capo di un nazione. Fin da subito Mandela si fece promotore del faticoso processo di transizione e riconciliazione che il paese dovette affrontare. La nazione si trovava in una condizione di fragile equilibrio: il passaggio dal regime dell’apartheid alla democrazia fu repentino, ma la ventata di libertà dovette misurarsi con una realtà dove, la concezione dell’apartheid e la sua sistematica violazione dei diritti umani era ben radicata e non poteva dissolversi da un giorno all’altro. Diventò urgente così trovare il modo di gestire l’eredità di un passato recente ma ingombrante, ben scolpito nella memoria di tutti, per poterla consegnare alle nuove generazioni. Giustizia retributiva o amnistia? La scelta di una terza via Il Paese doveva decidere come giudicare quelle persone che si erano macchiate di crimini durante gli anni della segregazione. Un approccio possibile era quello utilizzato nei processi di Norimberga e di Tokyo, che costituivano le radici storiche e culturali dei Tribunali Penali Internazionali (Tribunale Penale Internazionale per la ex Jugoslavia, con sede all’Aja, in Olanda; Tribunale Penale Internazionale per i Crimini in Rwanda, con sede ad Arusha, in Tanzania). L’opzione di seguire il modello di Norimberga, portando in tribunale tutti coloro che avevano commesso gravi violazioni dei diritti umani, per sottoporli al normale iter giudiziario si rivelò impraticabile per il Sudafrica. Se nella Germania della Seconda guerra mondiale era stato possibile imporre unilateralmente la “giustizia del vincitore”, poiché le forze alleate avevano sconfitto l’esercito nazista, in Sudafrica nessuno poteva imporre questo tipo di giustizia, in quanto da nessuna delle due parti era stata riportata una vittoria decisiva: i sudafricani erano costretti a vivere gli uni accanto agli altri, vincitori e vinti nello stesso territorio. In secondo luogo, i militari, che avevano ancora il controllo delle armi e potevano sabotare l’intero processo, non avrebbero mai appoggiato una transizione pacifica se al termine dei negoziati avessero saputo di dover pagare per i crimini a loro imputati. Un’ulteriore motivazione all’impossibilità di istituire un processo sul modello di Norimberga era di carattere economico: un simile apparato processuale avrebbe gravato economicamente su un sistema giudiziario già messo a dura prova da importanti e costosissimi processi a carico dello Stato. Infine in molti dei casi, non sarebbe stato possibile presentare prove a carico degli imputati, poiché gli unici testimoni ancora in vita erano gli autori stessi dei crimini, che si erano prodigati per distruggere le prove e coprire le proprie responsabilità, usando tutti i mezzi che lo Stato metteva loro a disposizione. L’amnistia generale (applicata in Cile su richiesta del generale Augusto Pinochet) è una causa di estinzione del reato e consiste nella rinuncia, da parte dello Stato, a perseguire determinati reati. Si tratta di un provvedimento generale di clemenza che risponde a criteri di opportunità politica e pacificazione sociale. La commissione in Cile per l’accertamento della verità aveva lavorato a porte chiuse, senza indagare sull’operato del regime, con lo scopo di impedire che venissero attribuite delle responsabilità. Era come se il generale Pinochet e il suo seguito in tribunale si fossero seduti contemporaneamente al banco degli imputati, dei giudici e dei pubblici ministeri arrogandosi la possibilità di autoassolversi, senza rendere noto a nessuno ciò che avevano fatto. Una proposta del genere in Sudafrica avrebbe avuto il sapore di una rimozione collettiva e avrebbe provocato di fatto una forma di vittimizzazione secondaria, negando un aspetto fondamentale dell’identità delle vittime. La cancellazione della memoria storica del paese avrebbe nascosto le braci dell’ingiustizia sotto le ceneri dell’oblio, braci che si sarebbero poi riaccese con conseguenze ben peggiori poiché “Quelli che non sanno ricordare il passato, sono condannati a ripeterlo”[1]. Per arrivare a stabilire la verità, si decise così di percorrere una terza via. Il 15 dicembre del 1995 il Capo di Stato Nelson Mandela nominò l’Arcivescovo anglicano Desmond Tutu Presidente della Commissione per la Verità e la Riconciliazione Sudafricana (Truth and Reconciliation Commission). Il lavoro della Commissione si articola attraverso diversi livelli di intervento: la ricostruzione della dimensione storico-collettiva delle violazioni; la ricostruzione della verità, direttamente collegata all'identificazione degli autori delle violazioni; il coinvolgimento degli autori delle violazioni in un percorso di presa di coscienza delle proprie responsabilità individuali, la riparazione delle vittime; il coinvolgimento della comunità in un progetto di riconciliazione. La Commissione era composta da tre gruppi di lavoro: il primo si occupava delle violazioni dei diritti umani ed era presieduto dallo stesso Tutu, il secondo riguardava la riparazione e la riabilitazione delle vittime, e infine il terzo era dedicato alla concessione dell’amnistia, composto da giudici esterni, nominati direttamente dal Presidente Mandela. Si trattava di un’impresa titanica poiché era necessario trovare il consenso non solo di coloro che avevano subito la sopraffazione, ma anche di coloro che avevano appoggiato il regime precedente, ben consci del fatto che “una nazione che sotto il regime repressivo è stata lungamente divisa, non trova immediatamente l’unità quando questo periodo finisce”[2]. Dall’amnistia al perdono possibile La parola amnistia dal greco ά-μνηστία rimanda etimologicamente non solo alla dimenticanza ma anche all’atto del perdono. Il perdono, che attiene alla dimensione del dono e della gratuità, non può essere imposto da nessuna legge. Si può perdonare senza dimenticare? È possibile mantenere l’amnistia e il perdono in una tensione dinamica? Conosciamo un tipo di perdono definito “morale” che è legato al principio di retribuzione, che ristabilisce una reciprocità tra reo e vittima e afferma che si può perdonare solo ciò che si può punire. Ma cosa succede se gli eventi sono irreparabili e antichi, se non c’è intendimento sul torto e diventa impossibile risalire ai responsabili? In questo caso il concetto di perdono morale non può funzionare. La Commissione si trova ad affrontare una situazione in cui tra i protagonisti non è possibile trovare un punto in comune, una tematica condivisa, uno scambio del proprio punto di vista. Per uscire da questa aporia ci viene in soccorso il concetto di giusta distanza di Paul Ricoeur. La giusta distanza consiste nella capacità del soggetto di trovare di volta in volta il punto di equilibrio all’interno della dialettica sé-altro. Questo riconoscimento reciproco non annulla l’alterità, ma la preserva, allontanando il pericolo della fusionalità o della radicalizzazione dell’estraneità. Si passa dall’idea di una distanza che separa, a quella di una distanza che congiunge: in questa dinamica il riconoscimento dell’altro, portatore di istanze diverse dalle proprie, si trasforma in una distanza attraversata. Si può accettare di perdonare, rendendo consapevoli i contendenti che è possibile trovare un accordo che tenga conto del disaccordo, che non esiste un linguaggio comune per definire il torto commesso o subito, che si può tentare di costruire una narrazione sufficientemente ampia che contenga la pluralità delle memorie per poter raggiungere un compromesso sostenibile, ammettendo che non si possono attribuire etichette a priori: vittima o carnefice, perdonante o perdonato. Questo tipo di perdono non elimina il passato, ma obbliga i contendenti a mettere da parte le proprie memorie cristallizzate, ad accettare una narrazione a più voci, in cui ciascuno accetti di spostarsi e di ricollocarsi nella trama della storia. Solo accettando questo tipo di perdono è possibile costruire un’ identità pacificata con il proprio passato. Un paese che vuole guardare al futuro, deve avere un’identità condivisa e la può trovare racchiusa nella propria memoria storica che è allo stesso tempo individuale, cioè legata all’esperienza del singolo, e collettiva, dove l’esperienza dei singoli viene riportata a una dimensione comunitaria. La Commissione era stata istituita per fare verità su quanto accaduto nei decenni precedenti: dopo anni di negazioni, omissioni e bugie, in molti casi, specialmente per le vittime di tortura, la domanda di verità era molto più urgente di quella di giustizia, perché si trattava di una domanda che atteneva alla dimensione del riconoscimento di quanto vissuto, che avviene quando ciò che è già conosciuto, entra ufficialmente nello spazio del dibattito pubblico. [3] Proprio per evitare che la richiesta di amnistia potesse essere fatta per opportunismo o convenienza, la legge prevedeva che, qualora il reato consistesse in una grave violazione dei diritti umani, quali il sequestro di persona, il maltrattamento grave, la tortura e l’omicidio, la domanda dovesse essere presa in esame nel corso di un’udienza pubblica e alla presenza dei mezzi di comunicazione. Una confessione pubblica era il prezzo da pagare per quegli imputati che, considerati fino a quel - momento rispettabili membri della comunità, rivelano pubblicamente di aver compiuto omicidi e torture, sottoponendosi così allo sconcerto, all’umiliazione e alla riprovazione da parte di chi ascoltava. Tuttavia il riconoscimento di responsabilità, che avveniva in modo spontaneo e pubblico di fronte alla Commissione, costituiva un alleggerimento sia della coscienza dei criminali, sia della pena delle vittime. Al pari degli innocenti, anche questi colpevoli furono spesso vittime di un sistema a cui avevano prestato assenso. La Commissione raccolse più di 20.000 deposizioni, segno della necessità delle persone di raccontare la propria storia, di rompere il silenzio, di uscire dall’anonimato. Durante le udienze le emozioni dei testimoni e degli imputati trovavano tempo e spazio di accoglienza e di manifestazione. La vergogna, il dolore, il pentimento, la rabbia, la commozione potevano finalmente uscire alla ribalta, legittimate. Questi momenti catartici non avrebbero potuto trovare spazio durante un processo ordinario. Proprio per la delicatezza e la drammaticità delle testimonianze la Commissione decise di creare intorno ai testimoni un clima di accoglienza, di conferma e di solidarietà e per introdurli in un’ atmosfera rassicurante. Chiunque presiedesse l’udienza rivolgeva loro delle parole di caldo benvenuto. La Commissione aveva previsto una figura che aveva il compito di affiancare il testimone fornendo il conforto della sua presenza, sedergli accanto mentre testimonia, passargli un bicchiere d’acqua, porgere un fazzoletto di carta quando piangeva. Inoltre una particolare attenzione era riservata all’assegnazione dei posti: per non dare l’impressione che il testimone fosse sul banco degli imputati, veniva fatto sedere allo stesso livello di commissari. Grazie a questo clima accogliente e non giudicante, per molte persone raccontare la propria vicenda davanti alla Commissione ebbe un effetto lenitivo e catartico: la verità personale, cioè la verità della memoria ferita, finalmente trovava spazio di ascolto. L’attestazione del riconoscimento di quanto subito racchiudeva in sé una forza risanatrice. Ascolto e accoglienza sono, infatti, essenziali per recuperare un varco verso la normalità. All’applicazione dell’amnistia per il reo, seguivano le misure di riparazione a favore delle vittime di cui doveva farsi carico lo Stato, cioè la collettività, che aveva interesse a raggiungere la pacificazione. Poiché non fu possibile dare a tutte le vittime un’ indennità proporzionata agli abusi subiti, la nazione, riconoscendo i diritti gravemente violati, previde: l’assegnazione di borse di studio o a favore dei figli delle vittime, programmi di recupero per i giovani, spese per interventi medici, abitazioni, una dignitosa sepoltura alle vittime del terrorismo. Ubuntu e Giustizia riparativa Desmond Tutu sosteneva che questa transizione pacifica fosse stata possibile grazie a un tratto fondamentale della visione africana del mondo conosciuta con il nome di ubuntu. Il termine in lingua nguni riguarda l’intima essenza dell’uomo: una persona che ha ubuntu è generosa, accogliente, benevola e compassionevole. Il termine può essere riassumibile nel concetto: “La mia umanità è inestricabilmente collegata con la tua”, e che “una persona è tale attraverso altre persone”. Una persona non si concepisce in termini individualistici ma relazionali: essa è tale solo attraverso gli altri. Per questa ragione l’umiliazione e la violenza patita dagli altri, viene assunta come propria, in una dimensione partecipativa. Il fare giustizia diventa un processo riparativo tanto per chi ha subito il torto quanto per chi lo ha commesso, perché in entrambi i casi gli individui sono stati degradati nella loro umanità. Il crimine non viene considerato come un episodio isolato, ma come un fatto che coinvolge l’intera comunità, perché ne minaccia il patto sociale. Per questa ragione i tribunali africani tradizionali non ricorrevano alla punizione, ma cercavano piuttosto una riconciliazione delle parti accompagnata da un’approvazione da parte della comunità, utilizzando la mediazione. L’etica dell’ubuntu è ben raffigurata dal logo della corte costituzionale sudafricana. Esso rappresenta delle figure di esseri umani bianchi e neri intrecciati tra di loro, dove la sagoma dell’uno nasce grazie allo spazio lasciato dalla sagoma del fratello. Queste figure sono protette dalla chioma dell’albero e nello stesso tempo si prendono cura lui. Nella società tradizionale africana le persone si incontravano sotto un albero per risolvere le dispute. Che cosa ci lascia in eredità l’esperienza sudafricana? L’istituzione della Commissione per la Verità e la Riconciliazione, non ha significato il silenzio sui crimini commessi anzi, ha permesso di risolvere i numerosi conflitti che serpeggiavano nella popolazione e che avevano bisogno di essere portati alla luce, con il loro carico di dolore e vergogna. Questo è stato il motore del cambiamento. Abbiamo visto invece che, laddove ci sia stata la fretta di accantonare il passato, senza l’elaborazione da una riflessione condivisa e di un riconoscimento dei reciproci errori, al solo scopo di raggiungere in modo più rapido un equilibrio pacifico, gli esiti siano stati nefasti. Una pace “coatta”, che nega ogni forma di conflitto interno, anche se sancita da un tribunale internazionale, genera uno stato di tensione permanente, di frustrazione, di rancore ed è destinata a non durare. Basti pensare a quanto avvenuto in Ruanda e nella ex Jugoslavia dove con le guerre civili si è pensato di affrontare il problema eliminando chi lo rappresentava, cioè le persone appartenenti a un’altra etnia. Ogni guerra civile nasce "dalla volontà sistematica di eliminare il conflitto come tensione reciproca, scontro e divergenza e dalla difficoltà di assumere l’altro come limite alle proprie compulsioni e alle proprie proiezioni"[4]. Se in Sudafrica non ci fosse stato questo un processo rielaborativo e riconciliatorio dopo l’apartheid, il senso di ingiustizia e la sete di vendetta avrebbero portato le vittime a diventare aguzzini e a loro volta persecutori, alimentando una spirale di violenza senza fine. La gigantesca operazione di giustizia ripartiva compiuta dalla Commissione guidata da Desmond Tutu, ha permesso al paese di costruire, pur con tante incertezze e difficoltà, le fondamenta di un avvenire nuovo, partendo da una narrazione sufficientemente ampia e condivisa per contenere la pluralità delle memorie. Desmond Tutu, figura autorevole e apprezzata anche da persone di altre confessioni religiose, non smise mai di pregare, credere e sperare in un avvenire migliore per il suo paese ed fu il facilitatore insieme al Presidente Mandela di un cambiamento epocale. Egli svolse il delicato compito di Presidente della Commissione e di mediatore con profonda umiltà, intensa empatia e instancabile apertura al dialogo, e sebbene i problemi e le difficoltà non fossero mancati, con la sua opera contribuì a ricucire gli strappi di una società divisa e ferita dall’odio e dalla violenza. Nel suo libro “Non c’è futuro senza perdono“ l’Arcivescovo rammenta: “E’ fondamentale non dimenticare il fatto che i negoziati, le trattative di pace, il perdono e la riconciliazione avvengono di solito non tra amici ma tra persone che non si apprezzano l’un l’altra. Si rendono anzi necessari proprio perché si sono creati rapporti di inimicizia e di odio. Ma i nemici possono diventare alleati, amici, colleghi, collaboratori. Non si tratta di un’ utopia: se ha potuto accadere da noi, accadrà sicuramente anche in altri luoghi. Forse Dio ha scelto un posto così improbabile come il Sudafrica, proprio per dimostrare al mondo che può accadere dovunque”[5]. Riconoscimento reciproco, riconciliazione delle parti e riparazione del danno fondano le basi di una società sana, dove i conflitti non vengono rimossi, ma gestiti: solo così possono diventare un’opportunità di crescita e di cambiamento. Ringraziamo Desmond Tutu che con l’esperienza sudafricana ci ha dimostrato che l’incontro tra verità e giustizia è davvero possibile. Bibliografia Castiglioni C., Il concetto di riconoscimento in P. Ricoeur. Verso un’etica dell’ospitalità e della gratitudine/riconoscenza, in rivista “Archivio di filosofia”, n. 1-2 LXXXI-2013, pp 37-46 Ceretti A., Il perdono, riparazione e riconciliazione, Ars interpretandi, 9, 2004 Martini C. M.; Zagrebelsky G., La domanda di giustizia, Einaudi, Torino, 2003 Novara D. La grammatica dei conflitti, Sonda, Casale Monferrato, 2011 Tutu D. , Non c’è futuro senza perdono, Feltrinelli, Milano, 2001 [1] Sono le parole del filosofo George Santayana che si trovano sopra l’ingresso del museo di Dachau. [2] Frankel M., Out of the shadows of night: The struggle for international human rights, Delacorte Press, New York, 1989 [3] Ceretti, Il perdono, riparazione e riconciliazione, p 4 [4] Novara, La grammatica dei conflitti, p 32 [5] Tutu, Non c’è futuro senza perdono, p 208
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AutoreDott.ssa Monica Bonsangue, psicologa, psicoterapeuta e psicotraumatologa, esperta in dinamiche di violenza. Formatore internazionale. Autrice del libro "La violenza psicologica nella coppia. Cosa c'è prima di un femminicidio". Archivi
Gennaio 2022
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